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COMMISSION #13 – SOFIA BORDIN

Sofia Bordin rielabora le sembianze di Giunone Caprotina effettuando una sorta di rovesciamento iconografico: solitamente ritratta con corna e orecchie caprine, la dea è in questo caso incarnata dall’estremità inferiore del suo corpo, una zampa, che sembra ascriverla irrevocabilmente al regno animale, nello specifico all’ordine degli ungulati.
La sua colorazione, così come la cera di cui è composta, rievocano d’altro canto cromie e morbidezze della pelle umana, a dimostrazione di una possibile ibridazione tra specie e modi di essere differenti. Ad apparire è una creatura, timidamente svelata, in grado di coniugare i propri strumenti di protezione con le parti più vulnerabili, le proprie abilità tattili con quelle difensive.
La selezione di un dettaglio anatomico come lo zoccolo è senza dubbio motivata dall’ampia riconoscibilità ed evidenza simbolica di quest’ultimo, ma l’isolamento dal corpo cui esso è riferito implica un ulteriore grado di opacità: nel suo essere parziale, l’immagine risulta di fatto ambigua, prestandosi a una lettura di carattere più poetico e per certi versi identitario.
D’ispirazione per l’artista sono i versi di Hannah Regel, che istituiscono un’analogia tra il suono prodotto dall’incedere di animali come cavalli, cervi o maiali, e quello generato dal passo femminile. La corrispondenza tra i due soggetti, l’uno umano e l’altro animale, non solo permette di riflettere sui ruoli e valori attribuiti dal primo al secondo, ma anche di condensare in un’unica immagine due sentimenti che sia l’artista che la poetessa considerano preminenti nell’esperienza femminile: la vergogna e il desiderio.
Il carattere frammentario dell’effigie e il suo scollamento dalla tradizione iconografica pagana inducono poi a pensare che si tratti, più che di una rappresentazione, di una vera e propria reliquia, la porzione superstite di un corpo disperso.
Aldilà dell’evidente rimando alla divinità romana, al potere generativo e irrefrenabile che sempre accompagna ogni corpo dotato di fattezze caprine (si pensi a Giunone ma anche a Pan, dio delle selve), l’opera sembra in questo modo voler minare l’unità da cui deriva, e di conseguenza la stessa identità che rappresenta: l’incompletezza e l’indistinzione che la contraddistinguono veicolano l’idea di un Sé disgregato, in pezzi, che rinuncia alla totalità per sfuggire alle categorizzazioni che da essa deriverebbero.
L’operazione riflette per certi versi gli intenti che lo studioso Jack Halberstam rintraccia nell’utilizzo della tecnica del collage da parte di artiste come Hannah Höch o Kara Walker: «una promessa di trasformazione, non attraverso una produzione positiva dell’immagine ma attraverso una sua distruzione negativa, che si rifiuta però di rinunciare al piacere».

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Testo di Giulia Gaibisso

Crediti fotografici: Irene Bruni

Sofia Bordin (Roma, 1998) è un’artista multidisciplinare che vive tra Roma e Londra. Si è recentemente laureata con un Master in Scultura alla Slade School of Fine Art a Londra, dopo aver completato la sua laurea triennale in Animazione presso il London College of Communication.
Impiegando simboli e linguaggi tratti dalle tradizioni popolari e dal folklore come strumenti di defamiliarizzazione, e attingendo a storie del passato, spesso relative a culture residuali, Bordin indaga la dimensione collettiva, quella delle credenze e delle “marginalità”. L’artista si muove negli interstizi tra contesto pubblico, domestico e teatralità, genera e abita il mito mediante nuove modalità di resilienza emotiva e costruzione di comunità.
La varietà dei materiali utilizzati nel suo lavoro (da quelli organici al metallo, fino agli oggetti trovati) riflette il desiderio di creare punti di passaggio e contatto tra tempi transitori e mondi potenziali, così come la volontà di avvalersi degli strumenti immaginativi come dispositivi di cura e resistenza.